“1891”, il naufragio del piroscafo Utopia in un libro di Roberto Lopes

Il libro di Roberto Lopes, "1891" (Casa editrice Istituto Poligrafico Europeo, 184 pagine, 15 Euro), racconta – come recita il sottotitolo – "Il naufragio del piroscafo Utopia". Scrive nella prefazione Vincenzo Guarrasi: "Utopia. Il nome di una nave e una profezia. La sua destinazione è l'America. Non arriverà mai alla meta, non con il suo carico di migranti. Il suo destino si compirà sulle soglie del Mediterraneo, nel porto di Gibilterra. Una manovra poco accorta, in condizioni atmosferiche avverse, ha come effetto un tragico naufragio con 554 vittime. Soltanto 155 saranno i superstiti che approderanno nel porto di New York a bordo di un altro piroscafo.
Si tratta di un evento che, dopo avere suscitato nell'immediato grande eco, è stato presto dimenticato. Come spesso accade quando a naufragare è una nave carica di migranti. In gran parte contadini poveri e braccianti, provenienti da diverse parti d'Italia, ma soprattutto dal Mezzogiorno, intenzionati a dare una svolta alla propria vita nel Nuovo Mondo, dove essi si attendevano grandi opportunità.
Importante è lo sforzo di documentazione affrontato da Roberto Lopes, autore di questo volume. L'indagine è attenta e accurata. Ha raccolto informazioni, documenti d'archivio e atti processuali relativi all'evento dispersi un po' dovunque. Li ha ordinati e ce li ripropone in una forma che crea grande risonanza e propende verso toni di tipo documentaristico che ancor più fanno risaltare gli aspetti tragici dell'evento in sé. Le cronache giudiziarie, in particolare, e certe immagini ci restituiscono con notevole vividezza i contorni degli accadimenti e delle persone coinvolte.
Il significato dell'operazione attuata da Roberto Lopes non si esaurisce nella ricostruzione storica di un evento specifico, individuato nello spazio e nel tempo. Esso, infatti, non offre soltanto un tributo alla memoria di un alto numero di persone tragicamente scomparse il 17 marzo del 1891, ma dà uno spessore storico a un'attualità che ci propone quotidianamente la cronaca di un dramma epocale: il Mediterraneo che si trasforma in cimitero per il naufragio di tanti migranti che non riescono ad approdare con successo alle sponde d'Europa.
La data del naufragio e la stessa parola "memoria" ci fanno pensare che ci troviamo di fronte a qualcosa che si riferisce al passato. Non è così. Io parlerei piuttosto di un presente rimosso. Il nesso tra gli italiani e le migrazioni non si è mai interrotto: dall'Unità a oggi abbiamo conosciuto e sperimentato ben tre cicli migratori. Il primo è quello che si è attivato nella seconda metà dell'Ottocento e che per la sua entità è stato definito la Grande emigrazione – il viaggio dell'Utopia ne costituisce una delle tantissime tappe – e si esaurisce nel secondo decennio del Novecento. Segue una lunga fase di stasi in corrispondenza dei due conflitti mondiali e del Ventennio fascista. Il regime totalitario, infatti, scoraggiava decisamente l'emigrazione dei giovani verso l'estero destinandoli, piuttosto, all'impresa coloniale o alla guerra. Nel secondo dopoguerra, si attiva, però, il secondo ciclo migratorio, che porta tanti italiani all'estero, privilegiando l'Europa come meta, piuttosto che le Americhe. A partire dagli anni Settanta, il rapporto tra la realtà italiana e le migrazioni si fa più complesso: da paese di emigrazione, nella percezione comune, l'Italia diviene paese di immigrazione. La necessità di fronteggiare un fenomeno nuovo, per cui non si è completamente preparati, induce a sottovalutare i flussi di migranti in uscita, che non tardano a farsi consistenti. Si attiva così il terzo ciclo migratorio italiano: dal 1993 a oggi si mobilitano verso l'estero più di un milione e mezzo di italiani.
Qual è il paradosso? Da un lato le politiche italiane – ed europee – messe in atto nei confronti dei flussi in entrata sono drammaticamente inadeguate. E nello stesso tempo sono del tutto inesistenti le politiche nei confronti dei flussi in uscita. Anzi, questi ultimi – se non ci fosse l'istat, di tanto in tanto, a ricordarcelo – sarebbero del tutto ignorati a livello pubblico. Non se ne parla nei dibattiti televisivi, né nelle aule parlamentari. Così accade che tantissime famiglie italiane abbiano uno o più giovani componenti all'estero, ma a questa esperienza privata non corrisponde un discorso pubblico. Ecco perché parlo di presente rimosso. Nella narrazione ufficiale non si affronta il tema dell'emigrazione italiana verso l'estero, come non si ama prendere seriamente in considerazione la questione della povertà. Soltanto che questa ritrosia non ha alcuna ragione di essere, anzi è deleteria perché non ci aiuta ad affrontare la questione di fondo che riguarda l'economia contemporanea. Le politiche neoliberistiche in atto da più di un trentennio a livello globale hanno acuito le ineguaglianze tra le componenti più ricche e quelle più povere della popolazione mondiale. Non soltanto rendendo intollerabili le condizioni di vita del cosiddetto Sud del mondo, ma anche riproponendo, e in forme acute, all'interno dei paesi più sviluppati problematiche che sembravano superate da tempo come la povertà, la precarietà e l'emigrazione.
Accade così che la disponibilità all'accoglienza nei confronti dei migranti provenienti dal Sud del mondo tenda a ridursi sensibilmente da parte delle popolazioni dei paesi più ricchi, che si trovano a loro volta esposte, più che nel recente passato, a condizioni di vita profondamente marcate dalla precarietà e dall'insicurezza economica. Certo non è condivisibile, ma forse è comprensibile l'atteggiamento di tanti individui e famiglie che esprimono, più che un rifiuto nei confronti dello straniero, una sorta di disorientamento e di sconcerto nei confronti delle proprie attuali condizioni di vita. Dopo decenni in cui di generazione in generazione erano mutati in meglio i propri livelli di esistenza, ci si trova tutti coinvolti in una repentina inversione di tendenza.
Ogni atteggiamento orientato verso la chiusura appare però oggi del tutto inefficace. Perché? Semplice: perché è cambiato il mondo in cui viviamo. L'interdipendenza tra nazioni e continenti è ormai tale che le frontiere non reggono più. Anche in occorrenza di gravissime epidemie, la chiusura e l'isolamento non possono costituire il rimedio efficace, né definitivo. L'umanità si trova forzata a elaborare risposte comuni e condivise. Il mondo è così densamente abitato e così interconnesso che i tre più rilevanti problemi attuali – il cambiamento climatico, le migrazioni internazionali e la sfida tecnologica – siano globali e non possano trovare risposta a livello delle singole nazioni.
Che cosa accade allora? Siamo ancora imbarcati sull'Utopia. Il rischio è sempre più grande: si è esteso a ogni angolo del pianeta. Un sistema economico senza regole o garanzie ha infettato il mondo intero. La posta in gioco è enorme e i "potenti del mondo" si comportano da veri irresponsabili. In questa novella Arca non sono a bordo solo due rappresentanti per specie. Non è più questione di noi e loro, noi e gli altri. Siamo tutti a bordo e non potremo più assistere al naufragio degli altri. L'epoca dell'indifferenza è finita, ogni linguaggio dell'odio superato. I tamburi di guerra che continuano a deflagrare, ormai suonano alle nostre orecchie soltanto come rumore. Una parte dell'umanità non potrà più salvarsi e tanto meno prosperare a spese dell'altra.
Si attendono parole della speranza mentre la profezia di Greta Thunberg non risuona, come dovrebbe, nella nostra mente e nei nostri cuori. Siamo ormai immemori del futuro. Consegnati a un presente senza tempo. È invece tempo, piuttosto, di agire la solidarietà, di elaborare risposte globali, di condividere storie. In questo tempo, che è il nostro, è sempre più importante, ogni giorno che passa, conservare memoria dell'Utopia".
D. P.