“La mappa segreta”: in un libro i testi ritrovati (1933-1983) di Jorge Luis Borges

Il libro di Jorge Luis Borges, "La mappa segreta" (Adelphi, 285 pagine, 22 Euro, a cura di Tommaso Scarano, traduzione di Rodja Bernardoni), raccoglie – come recita il sottotitolo – "Testi ritrovati (1933-1983)". Immane Atlantide sommersa, le quasi duemila pagine dei Textos recobrados – recuperati e radunati dopo la scomparsa di Borges – rivelano le molteplici linee di forza di una riflessione critica di sconcertante novità. Rispetto ai fervori iconoclasti degli anni Venti (documentati in Il prisma e lo specchio, 2009), si colgono qui, già a partire dai primi anni Trenta, una tonalità e nuclei di pensiero e di interesse del tutto inediti: l'inconsistenza dell'io, giacché una persona «non è altro che ... la serie incoerente e discontinua dei suoi stati di coscienza» e «la sostanza di cui siamo fatti è il tempo o la fugacità»; la letteratura poliziesca, che riesce a conciliare «lo strano appetito d'avventura e lo strano appetito di legalità»; le immagini dell'incubo, «la tigre e l'angelo nero del nostro sonno», disseminate nella letteratura da Wordsworth a Kafka; il gaucho, «amato territorio del ricordo» e «materia di nostalgia»; il tramonto del concetto di testo definitivo, che «appartiene alla superstizione e alla stanchezza»; la rivelazione che Buenos Aires, un tempo oggetto di caparbie trasfigurazioni poetiche, può essere descritta solo «per allusioni e simboli». Ma quel che più affascina è la perfetta architettura di questi scritti, capaci, quale che sia l'argomento prescelto, di espandere il nostro orizzonte (talora con un semplice inciso: «Nel mondo immaginato da Walpole, come in quello degli gnostici siriani e in quello di Hollywood, c'è una guerra continua tra le forze del male e quelle del bene») e di ravvivare il dialogo fra due interlocutori che «lo scorrere del tempo avvicina e allontana, ma non separa»: il testo e il lettore.
Ecco un assaggio del libro: «Vorremmo essere Goethe », pare che dica una pagina di Eugenio d'Ors. «Vorrei essere Alvear», dice l'appassionato di intrighi politici. «Vorrei essere Joan Crawford », dice in una qualunque platea o in un qualunque palco, una qualunque voce di donna. Sintatticamente questi tre aneliti si equivalgono. Per il grammatico, per il mero inesistente grammatico, la stessa locuzione «vorrei essere » opera con identico significato in tutti e tre i casi. Per me, no. «Vorremmo essere Goethe » mi sembra una trascurabile mascalzonata, la piccola messinscena di uno scrittore che finge di rinunciare ad altre più evidenti brame per bramare un'opera che pochi frequentano con piacere, ma che è considerata estremamente raffinata. (Ometto l'interessante circostanza di voler essere un morto, di voler già essere una gloria o un nome). «Vorrei essere Alvear » non significa « Vorrei essere Alvear ». Significa «Vorrei essere » chi sono, ma con le opportunità « di cui dispone Alvear e di cui non approfitta, perché è solo Alvear ». Significa in ultima analisi: « Alvear vorrei essere io... ». « Vorrei essere Joan Crawford » invece può significare «Vorrei abitare il portentoso corpo di Joan e riscuotere i suoi magnifici tributi di adorazione e di oro e di fotografi esperti », ma può anche voler dire « Vorrei essere, anima e corpo, Joan Crawford ». È quest'ultimo, in verità, il desiderio che interessa di più: che B voglia essere N. Ha senso un tale anelito| Ho già dimostrato come nel comunissimo caso di «Vorrei essere Alvear », B non vuole essere N; vuole essere B + N o B moltiplicato per N. In quello dell'ammiratrice di Joan, B vuole smettere di essere B ed essere completamente N: ma la precedente obliterazione o suicidio lo fa scomparire, così che di B non rimane niente e la sua assimilazione in N, o il rapido consumo da parte di N, è impraticabile. Se nel corso del prossimo minuto io mi trasformo nel vecchio barbiere del fratello maggiore del segretario personale di Al Capone, nel preciso istante in cui quel problematico personaggio occupa il mio posto, il miracolo è tanto assoluto quanto impercettibile. Niente mi impedisce di supporre che questi segreti cambiamenti si verifichino di continuo e che un modesto Dio si compiaccia di tali pudichi miracoli. La sconcertante mancanza di stupore nel momento preciso della trasformazione è la prova della perfezione dell'adattamento. Giungo alla seguente melanconica conclusione: B non può diventare N, perché se ci riesce, non se ne renderanno conto né N né B. In questo sconforto, non conosco altro soccorso possibile se non quello che ci offrono i metafisici idealisti".
D. P.