Il Giorno dei Morti: le radici arcaiche del culto cristiano

16.10.2022

Il 2 novembre è il giorno dedicato al ricordo dei defunti, in tanti si recano nei cimiteri per tributare il proprio saluto a chi ci ha preceduti e il più delle volte, inconsapevolmente, ripetiamo gesti e consuetudini che si perdono nella notte dei tempi e che hanno un profondo e arcaico valore rituale. Questa usanza così radicata proviene infatti direttamente da epoche antichissime e la sua sopravvivenza all'interno della tradizione cristiana conserva ancora elementi fortemente arcaici. Molte delle ricorrenze cristiane infatti si sovrapposero a consuetudini e feste precedenti, non solo il Giorno dei Morti, ma anche altri importanti momenti del calendario cristiano hanno legami diretti con la religiosità antica, su tutti il Natale, che rimanda ai riti connessi al solstizio d'inverno, e la Pasqua, che è legata ai riti di rigenerazione che avvenivano a primavera.

Alle origini del pensiero religioso

Il culto dei morti è considerato come uno degli elementi fondanti della civiltà e delle manifestazioni culturali umane e le sue prime testimonianze risalgono al medio-tardo paleolitico (120000-40000 ac.), la pratica della sepoltura sembra accomunare diverse specie di ominidi. Le inumazioni in posizione fetale all'interno di fosse insieme a cibo, utensili e fiori, che risalgono a questo periodo, sono probabilmente la ritualizzazione di un simbolico e concreto ritorno al grembo della madre terra, frutto di dinamiche psicologiche forse già inclini a credenze su forme di rinascita, reincarnazione o di una nuova esperienza sotto forma di spiriti nel mondo dei morti. Secondo alcune tesi la nascita stessa dei fenomeni religiosi è da ascrivere nel novero delle operazioni legate al ricordo dei defunti. La memoria dei progenitori mitici del clan, della tribù o del gruppo familiare, sopravviveva attraverso l'adorazione di idoli antropomorfi che rappresentavano la radice della creazione di divinità dall'aspetto umano. Le apparizioni dei morti in sogno probabilmente rappresentarono le prime forme di credenze sulla sopravvivenza delle anime in dimensioni contigue a quella dei vivi. Nei sogni essi apparivano vitali come in passato, parlavano e agivano come quando erano in vita, ma avevano scelto il regno delle tenebre e della notte e non quello della luce per espletare le proprie attività. I defunti, ribaltando in questo modo le consuetudini dei vivi, si ritrovavano ad essere considerate come divinità di una dimensione parallela, lo storico francese Numa Denis Fustel de Coulanges nel XIV secolo scriveva «il culto dei morti si ritrova tra gli elleni, i latini, i sabini, gli etruschi e anche tra gli arii dell'India. Gli inni del Rg-Veda ne fanno menzione. Le Leggi di Manu ne parlano come del più antico culto umano. Era uno dei principali culti celtici. L'indice delle superstizioni e pratiche pagane redatto dal Concilio di Leptines (Hainault) del 1742, condannava l'uso che si faceva di considerare tutti i morti come dei santi»

Nel mondo antico il culto legato ai morti occupava una posizione centrale all'interno del pensiero religioso di tutte le culture, è ampiamente noto il rapporto profondo tra gli antichi egizi e l'oltretomba: la meticolosità con cui espletavano i rituali funebri, la costruzione di imponenti opere destinate a custodire le spoglie mortali dei faraoni e il famosissimo Libro dei Morti, in cui sono spiegate con dovizia di particolari tutte le fasi del viaggio dell'anima del defunto dalla vita terrena all'aldilà, sono alcuni degli elementi più evidenti di questo legame. Il tema del viaggio del vivente nel mondo dei morti era diffuso anche in Mesopotamia dove le cerimonie funebri erano codificate in modo preciso e i corpi dei defunti venivano inumati nel sottosuolo che si riteneva fosse la sede dell'oltretomba.

In area italica gli Etruschi credevano che i morti continuassero a vivere all'interno delle loro tombe, per questo venivano costruite abitazioni fornite di tutto il necessario, compreso degli elementi che indicavano la condizione sociale dell'ospite come ad esempio i gioielli per le donne e le armi per i guerrieri; spesso pitture murali rappresentavano scene della vita quotidiana o dei miti. Le sontuose sepolture etrusche creavano delle vere e proprie necropoli ovvero delle città dei morti, dal greco necros (morto) e polis (città), e forse proprio l'influenza del mondo greco a partire dal V secolo a.c. in poi determinò mutamenti sostanziali nel rapporto tra etruschi (e italici in generale) e il mondo dell'oltretomba. Questo iniziava a configurarsi come un mondo sotterraneo abitato da divinità infere e dagli spiriti di antichi personaggi mitici, il defunto veniva scortato da esseri infernali quali i demoni Charun, deforme e armato di martello, e Tuchulcha, armato di serpenti e dalla testa di avvoltoio. Il lupo era un animale dai forti connotati psicopompi, in una tomba etrusca rinvenuta ad Orvieto, il dio degli inferi Hades è raffigurato con una testa di lupo come copricapo, legame che è rintracciabile anche in altre culture europee del mondo antico: nel diritto germanico coloro che venivano ostracizzati dalle comunità di appartenenza erano considerati morti e chiamati wargr o wargus, ovvero "lupo". L'oltretomba era considerato un luogo di non ritorno e le sofferenze delle anime potevano essere alleviate solo dalle preghiere, dalle offerte, dai riti e dai sacrifici effettuati dai vivi.

Già dall'VIII-VII secolo a.c., la nascita delle prime colonie greche in Italia con la fondazione di Pythecussai (Ischia) prima e di Kyme (Cuma) e Parthenope (Napoli) in seguito, immise attraverso le pianure della Campania Felix nuovi paradigmi culturali e religiosi (oltre che sociali e politici): è in questa fase che gli etruschi di Capua, gli aurunco/ausoni di Suessa e di Cales, i Sanniti dell'Appennino e gli italici del Lazio (quindi anche i Latini) entrano in contatto con il mondo greco. Le nuove colonie mantennero integri i costumi funebri tradizionali: il defunto veniva esposto per tre giorni sul letto in posizione quasi verticale, una consuetudine chiamata prothesis, affinché chi visitava la salma potesse aspergerla in segno di ossequio con acqua profumata con erbe aromatiche. Durante l'esposizione donne di famiglia o spesso professioniste pagate chiamate threnoi, assistevano il defunto con continue lamentazioni e pianti. Dopo i tre giorni avvenivano le esequie vere e proprie, chiamate Ecforà, durante le quali un corteo accompagnava la salma alla pira funebre, in caso di cremazione, o al sepolcro, in caso di inumazione. Il defunto riceveva doni e veniva provvisto di un corredo utile alla vita ultraterrena, doni e corredo venivano bruciati insieme alla salma, oppure riposti nel sepolcro in caso di sepoltura. Tanti di questi elementi tipici delle consuetudini funerarie greche rivivono ancora oggi, dall'esposizione del defunto, al corteo funebre, fino alle lamentazioni, prassi ancora viva nel meridione grazie alle prefiche, che al pari delle threnoi sono delle professioniste la cui attività sopravvive in alcuni particolari contesti a tradizione contadina. La consuetudine di piangere e soprattutto far piangere per i morti esisteva già nell'antico Egitto, le cui prefiche sembra abbiano ispirato quelle greche e romane, in Persia, in India e presso gli ebrei. Considerazione valida anche per i tradizionali banchetti funebri, ancora in auge in alcune zone del mondo anglosassone e germanico, che altro non sono che la reminiscenza dei banchetti che nell'antichità venivano allestiti in onore dei defunti per tributare loro un estremo atto di amicizia e per non renderli ostili. L'eco di queste usanze sopravvisse nel medioevo, epoca in cui si credeva che in determinate notti si dovessero lasciare offerte in cibo per i morti, fino a raggiungere l'epoca moderna: i dolci tipici del periodo dei morti confezionati in forme e nomi diversi in moltissime aree, sono il residuo di queste antiche credenze contadine diffuse in tutta Europa.

Mani, Lari, Lemuri e Larve

Per gli antichi Romani il Mos Maiorum, ovvero i costumi degli antenati, erano il punto di riferimento posto alla base della scala dei valori sociali e civili, il rapporto con gli antenati, e quindi con i morti, si configurava di capitale importanza sia culturale che politica. I riti funebri per questo motivo rappresentavano l'accoglienza del defunto da parte degli antenati nel gruppo della gens di appartenenza, all'interno di un cerimoniale pubblico che sanciva e certificava la transizione ultramondana. Le aree dedicate all'inumazione delle salme o delle loro ceneri erano ubicate fuori dalle mura cittadine come prescritto dalle Leggi delle XII Tavole che in materia disponevano «hominem mortuum in urbe neve sepelito neve urito» (Non si seppellisca né si cremi nessun cadavere in città).

I morti incaricati della protezione dei familiari ancora in vita, e per questo considerati spiriti benefici, erano chiamati Mani (Manes), entità ultraterrene e senza individualità strettamente legate alla familia di provenienza. Il culto dei Mani aveva sia una dimensione pubblica e istituzionale sia una dimensione privata. Nelle case, a fianco ad essi, erano venerati anche i Lares Familiares (dal latino lar, "focolare", o dall'etrusco lar, "padre") che erano gli spiriti protettori dei defunti con specifiche funzioni di geni beneaugurali che propiziavano la vita e l'attività della famiglia. Gli spiriti degli antenati venivano rappresentati per mezzo di statuette fittili, lignee o anche di cera, che erano chiamate sigillum (piccolo segno/immagine) ed erano collocate in apposite edicole dette Larari, all'interno delle quali in alcune particolari occasioni venivano accese delle piccole fiammelle votive. Secondo Plauto a volte i Lari venivano rappresentati come cani e le loro effigi poste a guardia delle porte. Tutti i più importanti eventi nella vita di un individuo erano posti sotto la protezione dei Lari, dal raggiungimento della maturità al matrimonio, dagli affari di famiglia alle nascite. Agostino di Ippona ne La città di Dio (IX, 11), riferendosi a scritti di Apuleio, differenzia in questo modo le anime dei defunti:

«animas hominum daemones esse et ex hominibus fieri lares, si boni meriti sunt; lemures, si mali, seu larvas; manes autem deos dici, si incertum est bonorum eos seu malorum esse meritorum»

L'anima umana era considerata un demone e gli uomini, una volta deceduti, divenivano Lari se avevano fatto del bene, fantasmi o spettri se avevano fatto del male oppure erano considerati dèi Mani se era incerta la loro qualificazione. Gli spiriti dei morti non avevano quindi una valenza esclusivamente positiva come quella incarnata dai Mani ("i benevoli", dall'arcaico manus ovvero "buono"), esse, soprattutto all'interno della cultura popolare, potevano anche assumere connotati negativi ed essere rappresentati come entità infernali capaci di apparire ai vivi con l'intento di spaventarli e tormentarli. Quando assumevano questi connotati inferi venivano chiamati Lemures e Larvae, a volte assimilati tra di loro, la cui caratteristica era quella di ritornare periodicamente nella dimensione dei vivi per trarre forza da essi divorandone le carni.

Va sottolineato che per alcuni autori, tra cui Ovidio, i termini Manes e Lemures andavano utilizzati indistintamente per indicare in generale le anime dei morti. L'autore nei Fasti, opera in sei libri in cui viene descritta la cronologia delle feste romane e ne vengono narrate le origini, fornisce indicazioni in merito a due celebrazioni ben distinte in onore dei morti: i Parentalia e i Lemuria. I primi venivano celebrati dal 13 al 21 febbraio e in questi nove giorni erano ricordati gli spiriti dei familiari; l'ultimo giorno era dedicato ai Feralia (da fero ovvero "porto), secondo la tradizione inaugurati da Enea, che prevedevano l'offerta pubblica di cibo, tra cui fave, sulle tombe dei morti con particolare riferimento ai Mani e per questo rivestivano un valore pubblico e ufficiale.

I Lemuria si tenevano invece il 9, l'11 e il 13 maggio, nei giorni considerati nefasti, quelli cioè in cui alcune attività erano ritenute illecite, come ad esempio contrarre matrimonio, e i templi restavano chiusi. Avevano un valore prettamente domestico e Ovidio nel V libro dei Fasti tramanda con dovizia di particolari un rituale antichissimo che veniva officiato tra le mura della domus: il paterfamilias, giunta la mezzanotte, girava scalzo per la casa schioccando le dita affinché nessun fantasma si imbattesse in lui, quindi purificava le mani a una fonte, prendeva un pugno di fave nere e le gettava alle sue spalle recitando la formula «haec ego mitto, his' inquit 'redimo meque meosque fabis » (io vi mando queste fave, con queste fave riscatto me e i miei). L'uomo ripeteva l'operazione per nove volte senza mai voltarsi in quanto si credeva che gli spiriti lo seguissero, invisibili, per raccogliere i legumi; infine lavava di nuovo le mani e utilizzando una pentola di rame emetteva rumore a scopo apotropaico chiedendo ai fantasmi di lasciare la casa ripetendo per nove volte la formula «manes exite paterni respicit, et pure sacra peracta putat» (Mani dei padri, uscite, guarda indietro e considera compiuto il rito pienamente). Il racconto ovidiano tramanda una liturgia ben codificata in cui la ritualità magica si imperniava sui cicli di formule e movimenti e sull'utilizzo delle fave come sacrificio offerto per placare gli spiriti degli antenati.

Tacita Muta

Le fave, quali alimento connesso con il mondo infero, compaiono anche in un altro ambito delle credenze popolari, sempre Ovidio nei Fasti (L 2, 571-582) descrive un rito privato celebrato durante i Parentalia in onore di Tacita Muta, una ninfa di nome Lara (o Lala) che significa "la ciarliera", resa muta per punizione da Zeus. Secondo il racconto la ninfa, in seguito, venne violentata da Mercurio e dalla loro unione nacquero i Lari, gli spiriti protettori della casa.

Ecco, seduta in mezzo alle ragazze una vecchia carica d'anni

compie le cerimonie in onore di Tacita - ma lei certo non tace-

e pone sull'uscio con tre dita tre grani d'incenso

là dove un topolino nascostamente si è fatto un passaggio.

Poi, dopo aver cantato, lega fili ritorti con piombo scuro

e si rigira in bocca sette fave nere,

e poi, dopo averla cucita, brucia al fuoco la testa di un pesciolino

dopo averlo coperto di pece e trapassato con un ago di rame.

E versa anche vino. Il vino che è rimasto

lo beve lei o lo bevono le compagne, tuttavia

ne beve più lei stessa; dice: "abbiamo legato

le lingue ostili e le bocche di chi non ci ama"

e poi allontanandosi ubriaca la vecchia se ne va.

La fava assume in più di una occasione il ruolo di elemento magico in rituali e cerimonie, sia nella sfera pubblica che in quella privata, il suo valore simbolico la connetteva direttamente al mese di maggio, periodo in cui avviene la raccolta del legume e in cui erano celebrate le feste in onore dei morti; già presso gli antichi egizi si riteneva che gli spiriti si reincarnassero nei campi coltivati con la pianta. Nel mondo greco e romano vigevano precisi tabù legati all'alimento, Pitagora vietava ai suoi discepoli di cibarsene, gli iniziati ai Misteri Eleusini dovevano astenersi dal consumarne, nei canti orfici veniva ribadito il divieto, a Roma il Flamen Dialis, ovvero il rappresentante di Giove in terra, non poteva né mangiarle né nominarle.

Cristianesimo e culto dei morti

Con l'avvento del cristianesimo, seppur prese il via un processo di traduzione dei motivi della religiosità antica secondo i nuovi canoni interpretativi e teologici, il culto tributato ai morti non si discostò molto da quello pagano, testimonianza ne sono in molti casi la sostanziale continuità nell'inumazione dei defunti nei medesimi luoghi dove erano stati seppelliti in passato. Le prime aree dedicate alle sepolture furono catacombe sotterranee, in seguito nel medioevo i morti tornarono ad essere seppelliti all'interno delle mura cittadine, nelle chiese o in aree adiacenti chiamate 'camposanti'. Cambiò però un aspetto importantissimo del rapporto con la morte e con esso anche il nome con cui venivano indicate le aree di sepoltura: le necropoli degli antichi che erano delle vere e proprie città dei morti, dove essi cioè avrebbero riprodotto una nuova vita, si trasformarono in cimiteri, dal greco koimeterion, ovvero "luogo di riposo", con una chiara allusione al risveglio e cioè all'attesa della resurrezione nel giorno del Giudizio Universale.

Restarono però ben saldi molti elementi del paradigma antico quali i monumenti e i cortei funebri, ma anche, come avviene nelle campagne del meridione tutt'oggi, la consuetudine di inserire nella bara oggetti della vita quotidiana, quali suppellettili, gioielli, strumenti di lavoro o oggetti cui il defunto era particolarmente legato. Ancora immutato e vivo, soprattutto tra le classi popolari del Mezzogiorno, è il rapporto diretto con gli spiriti dei parenti defunti: ogni casa custodisce il suo "larario" costituito da effigi e statuine di santi protettori e immagini dei familiari illuminate da ceri; con loro si parla e a loro ci si rivolge nei momenti di difficoltà per richiederne l'aiuto; sono loro che frequentano i sogni e attraverso di essi consegnano messaggi per i vivi.

Probabilmente i primi secoli del cristianesimo si contraddistinsero per una sostanziale sovrapposizione tra nuove e antiche consuetudini, non solo rispetto al culto tributato ai defunti ma anche per quel che riguarda i periodi in cui essi venivano commemorati. La chiesa dei primi secoli infatti celebrava una giornata in suffragio dei morti il sabato prima della domenica di Sessagesima, periodo compreso tra la fine di gennaio e il mese di febbraio. Solo nel 998, su ispirazione di sant'Odilone di Cluny in seguito alla riforma cluniacense, venne stabilito che le campane delle abbazie dell'ordine dovessero suonare con rintocchi funebri dopo i vespri del primo novembre per ricordare i defunti e che il giorno dopo venisse consacrato pro requie omnium defunctorum. La consuetudine in seguito divenne ufficiale per tutta la chiesa cattolica che aveva collocato negli stessi giorni anche la commemorazione di Ognissanti già a partire dall'835 ad opera di papa Gregorio III. Pontefice noto per la sua missione di cristianizzazione delle popolazioni pagane dell'Europa centro-settentrionale soprattutto grazie all'opera dei monaci benedettini Beda il Veberabile, Wynfrith (Bonifacio) che venne appoggiato da Carlo Martello, Ecgbert arcivescovo di York e Tatwin arcivescovo di Canterbury. Fu Gregorio III a collocare la commemorazione di Tutti i Santi a inizio novembre sovrapponendola alla festa celtica di Samhain: con questa sostituzione, nell'ottica del pontefice, era possibile eradicare completamente ogni residuo di paganesimo all'interno di un'area vastissima.

Samhain, Halloween e le Processioni dei Morti

Festa di Tutti i Santi e Commemorazione dei Defunti vennero collocate tra fine ottobre e inizio novembre nell'ambito del meticoloso lavoro di traduzione e sostituzione delle consuetudini arcaiche in tutta l'Europa cristiana soprattutto ad opera dell'ordine benedettino, che in questo modo rielaborava le credenze religiose pagane che si erano conservate nel mondo rurale per adeguarle alla nuova religione.

In particolare, il legame con il mondo dei morti era una degli aspetti centrali della festa celtica di Samhain, che gli Insubri del nord Italia chiamavano Samonios; la ricorrenza salutava l'inizio dell'anno secondo il calendario celtico e coincideva con la fine dell'estate: il termine deriverebbe dall'antico irlandese samuin (o samfuin) che significa appunto "fine dell'estate". Le implicazioni di Samhain sono molteplici e come ogni rito di passaggio la festa celebrava le forze della rigenerazione che in seguito ai raccolti estivi venivano ringraziate, nella loro personificazione attraverso gli dèi, al fine di riceverne la protezione durante i mesi invernali prossimi a venire. La morte era uno dei temi principali della festa, in riferimento alla apparente morte della natura durante i mesi invernali nei quali la vita si rinnova in segreto nel sottosuolo, regno indiscusso dei morti. Samhain rappresentava uno spazio fuori dal tempo in cui l'anno vecchio era già finito e quello nuovo non era ancora cominciato, questo dissolvimento di spazio e tempo permetteva agli spiriti di tornare ciclicamente nel mondo dei vivi. Nonostante lo sforzo della chiesa di Roma di estirpare le credenze tradizionali, soprattutto nel mondo contadino, l'azione di rielaborazione operata dall'alto da parte delle autorità ecclesiastiche venne ribaltata dal basso da parte degli strati popolari: in questo modo cultura alta e cultura bassa per secoli si influenzeranno a vicenda. Le antiche credenze che legavano Samhain al regno dei morti e alla possibilità di poter interagire con esso, sopravvissero infatti nella festa di Halloween che nonostante si creda sia una festa americana ha solide radici europee. Il nome deriva dall'irlandese Hallow E'en, forma contratta di All Hallows'Eve (in inglese All Hallows Day), dove hallow in inglese antico stava per santo: Halloween significa quindi festa di Tutti i Santi. In questo modo le antiche consuetudini legate a Samhain tornarono a vivere all'interno della festa dei santi cristiani, caratterizzandosi attraverso le mascherate che rappresentavano il residuo di un antico sostrato rituale che alludeva alla venuta dei morti nel mondo dei vivi e alla possibilità di poter instaurare relazioni con essi.

Il ritorno dei morti nel mondo dei vivi non doveva essere una caratteristica esclusiva del mondo celtico e dei riti legati a Samhain/Halloween, il tema della credenza popolare della cosiddetta Processione dei Morti inizia infatti a comparire anche in testi scritti in latino e volgare in un'area molto vasta a partire dall'XI secolo. Dall'Inghilterra alla Scandinavia, dalla Germania ai Balcani, fino a raggiungere l'estremo meridione dell'Italia, sono molteplici le tradizioni secondo le quali in alcuni particolari giorni, le anime dei defunti tornano a visitare i vivi comparendo in schiere e processioni. Stando alle credenze, in queste occasioni le anime amano visitare in particolare modo le case pulite, ben fornite di legna, ben spazzate e quelle dove chi vi abitava aveva lasciato piccole offerte in cibo e bevande affinché gli spiriti potessero ristorarsi. Le credenze sulle Processioni dei Morti sono oggi ancora diffuse in molti luoghi d'Europa e all'interno delle tradizioni contadine si ritiene che esse si verifichino durante i periodi di passaggio, non solo in coincidenza con l'antica festa di Samhain, ma anche durante i 12 Giorni che da Natale conducono all'Epifania, lasso di tempo che nei paesi di lingua germanica veniva chiamato Zwolften, durante i quali si riteneva che le anime dei morti vagassero sulla terra; ancora nel 1400 nel Palatinato i contadini credevano che una divinità dispensatrice di abbondanza chiamata Hera girasse in volo durante questo periodo a capo della schiera delle anime. La credenza delle Processioni dei Morti tra Natale ed Epifania doveva essere molto diffusa anche nelle campagne del sud Italia dove tradizioni folkloriche ancora vive in alcune zone sembrano essere forme derivate dalla rappresentazione e dalla ritualizzazione delle schiere dei defunti; in particolare il ricordo di queste credenze riecheggia sia nelle questue musicali di Capodanno animate da gruppi di giovani, che in questo modo mettevano in scena i cortei delle anime, sia nelle Pastorelle natalizie. Questi gruppi itineranti giravano tra le case alla vigilia di capodanno ricevendo doni e cibo in cambio dei canti il cui potere era quello di portare fortuna per il nuovo anno. Questa tradizione è ancora particolarmente sentita nel casertano dove nella zona di Sessa Aurunca viene ancora mantenuto vivo il tradizionale corteo del Buco Buco, e a Pignataro Maggiore dove all'interno del canto che accompagna i questuanti è ben riconoscibile il tema dell'ambiguità dei morti che nel caso non ricevano doni sono pronti a fare dispetti ai vivi: elemento che ancora oggi caratterizza la festa di Halloween con la famosa formula "dolcetto o scherzetto". Nel canto di Capodanno in questo centro del casertano infatti una delle strofe recita «fateci un'offerta come gli altri anni altrimenti vi tiriamo i capelli»: un vero e proprio "trick or treat" contadino ante litteram.

Anche nelle tradizionali Pastorelle della vigilia di Natale, e nelle pantomime musicali caratterizzate da temi religiosi e profani come ad esempio la "Cantata dei mesi", il corteo dei partecipanti spesso ha come ultima tappa il cimitero, proprio per sottolineare il legame tra questo periodo dell'anno e il ritorno degli spiriti tra i vivi. Una sostanziale simmetria lega le tradizioni celtiche che sono alla base della moderna festa Halloween e le credenze sulle Processioni dei Morti diffuse nelle campagne italiane: entrambe sembrano essere il ricordo di rituali che mettevano in scena la venuta delle anime dei defunti nella dimensione dei vivi. Le schiere dei morti, secondo le consuetudini contadine, spesso erano capeggiate da personaggi mitici o da spiriti della natura come Herlechinus (Arlecchino), Odino (Wotan), Re Artù, le stesse influenzarono anche le tradizioni legate al cosiddetto Esercito Furioso (conosciuto anche con i nomi Wütischend Heer, Mesnie furieuse, Mesnie Helle- quin, Exercitus Antiquus) e alla Caccia Selvaggia (Wilde Jagd, Chasse sauvaget Wild Hunt, Chasse Arthur). In queste consuetudini va riconosciuta la schiera dei morti e più precisamente, la schiera dei morti anzitempo, dei soldati uccisi in battaglia e dei bambini non battezzati. Anime cui gli strati sociali popolari continuarono a tributare un culto molto sentito, l'apparizione minacciosa dei morti implacati venne infatti reinterpretata e assimilata in senso cristiano e moraleggiante con l'elaborazione dell'immagine del Purgatorio verso la fine del XII secolo. Ma le caratteristiche di matrice pagana continuarono a sopravvivere all'interno della festa cristiana, come ad esempio la consuetudine di preparare in questo periodo dolci il cui nome allude ai morti, come le Ossa dei Morti, le Bare dei Morti, o come i Pupi di zucchero in Sicilia, la cui origine va probabilmente ricercata nell'antica usanza di produrre e donare statuine che rappresentavano i Lari Familiari durante le feste a loro dedicate. I cibi tradizionali legati alla commemorazione dei defunti presenti in quasi tutte le culture europee rimandano direttamente ai banchetti rituali celebrati nell'antichità in ricordo delle anime degli antenati e alle offerte di cibo e bevande lasciate di notte sulle tavole per le anime dei morti dal medioevo fino all'era moderna.

Nonostante il cristianesimo abbia tentato di eradicare le vecchie credenze pagane queste, attraverso i secoli, seppero resistere rifugiandosi soprattutto all'interno delle consuetudini popolari e contadine, il culto dei morti dell'uomo moderno è profondamente imperniato sugli stessi paradigmi dell'uomo antico. Le visite alle aree di sepoltura, l'usanza di portare fiori, le edicole domestiche con le immagini dei familiari defunti cui indirizzare le preghiere, i dolci tradizionali di questo periodo che rimandano ai banchetti rituali e le superstizioni legate alle Processioni dei Morti, sono solo alcuni dei fattori che da millenni caratterizzano il rapporto degli esseri umani con il mondo dell'oltretomba. Quando ci rechiamo al cimitero per onorare la memoria dei nostri cari defunti, riproduciamo gesti e azioni che ci rendono simili e ci legano inscindibilmente ai nostri antenati di secoli e secoli fa: il culto dei morti è un pezzo vivo del paradigma religioso arcaico di cui tutti noi siamo i custodi e i continuatori.

Massimiliano Palmesano

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